Il cammino dell'adozione. Rizzoli 2002

Introduzione

 

 

L'adozione è un tema caldo, che suscita facilmente reazioni emotive. Parole come mamma, bambino, famiglia, separazione non sono termini neutri ma espressioni che ci ricollegano immediatamente ad alcune delle nostre esperienze più intime e profonde a cui sono collegate sensazioni e stati d'animo complessi e soggettivi. Nell'immaginario collettivo, la mamma è il punto di partenza della vita e il primo "oggetto" di attaccamento; il bambino è l'espressione più evidente della tenerezza e della vulnerabilità; la famiglia è la casa, il porto sicuro sede della spontaneità e degli affetti; la separazione è la frattura, l'evento non voluto che interrompe il filo di una storia, allontana da luoghi e persone e crea, nella vita di un individuo, un "prima" e un "dopo" inequivocabili.

 

Questi sentimenti individuali e collettivi sono stati ora enfatizzati, ora minimizzati a causa di diverse posizione ideologiche o interpretazioni culturali. Se per le famiglie patrizie dell'Antica Roma l'adozione era una prassi normale e il legame che da essa nasceva era più forte di quello di sangue in quanto indicativo di una scelta e quindi di un privilegio, successivamente e per lungo tempo il legame di sangue fu considerato il vincolo più forte di tutti da cui originavano i diritti ereditari, cosicché il suo venir meno era giudicato in termini negativi: una vera e propria menomazione dello spirito, una disgrazia da tenere nascosta persino all'interessato, una vergogna che, se risaputa, avrebbe potuto avere effetti dissestanti anche su figli e nipoti. Recentemente, però, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo che si è appena concluso, si verificò un ribaltamento dei piani e il legame di sangue perse terreno di fronte ad altri basati su scelte libere e ragionate.

 

In base a questa nuova ottica culturale, l'adozione venne però considerata in modo troppo lineare e semplicistico, non problematica e dotata di soluzioni facili per tutti. Si affermò che non c'era nella sostanza alcuna differenza tra le famiglie che derivano dai legami di sangue e quelle adottive. Accoglienza e affetto sarebbero stati sufficienti a risolvere ogni tipo di problema. L'amore avrebbe ovviato a tutto. Nel desiderio di normalizzala, si finì per negare all'adozione alcune caratteristiche strutturali e alcune sue specifiche dinamiche affettive. Ciò fu possibile anche perché si continuava a guardare all'adozione con gli occhi dei genitori, non quelli dei figli che, generalmente, al momento dell'adozione sono dei bambini, caratterizzati da specifiche esigenze e una loro visione del mondo.

L'osservazione quotidiana, l'esperienza degli psicologi e gli studi scientifici condotti in questi ultimi trent'anni hanno però evidenziato e documentato l'esistenza di una specificità della condizione di adottato. L'ottica dei genitori adottivi e degli adulti in generale non è sovrapponibile a quella dei figli nelle diverse fasi del loro sviluppo. Le esigenze della crescita e il bisogno di riallacciare in maniera coerente passato e presente sono più importanti, per il Sé dell'adottato, del legame di sangue, delle radici biologiche. Queste ultime sono soltanto uno dei gradini su cui bisogna salire per raggiungere un'identità piena, non priva delle sue fasi iniziali, delle conoscenze sulla propria vicenda esistenziale.

 

Il compito evolutivo per tutti - adottati e non - è saper passare tra due realtà diverse, quella familiare e quella extrafamiliare, affrontando di volta in volta gli ostacoli, lievi o complessi, che si presentano. I bambini il cui Io individuale è ancora scarsamente delineato, si appoggiano al Noi familiare per presentarsi al mondo con una identità e una sufficiente sicurezza in sé stessi: questa strategia implica che differenzino coloro che sono "simili" - familiari e parenti - da quanti sono "diversi da sé". Per gli adottati questo processo implica altre dinamiche e negoziazioni psicologiche; per esempio, l'adottato deve venire a patti con interrogativi quali: "chi sono mio padre e mia madre?", "perché non mi hanno tenuto?", "mia madre mi ricorda?", "mio padre sapeva di me?".

 

L'adozione può avere successo e colmare il senso di perdita dell'abbandono o i traumi di un'infanzia problematica purché i genitori adottivi guardino al bambino non come ad un loro esclusivo raggiungimento, una acquisizione che soddisfa la necessità di avere un ruolo parentale, ma anche e soprattutto alle esigenze psicologiche e di crescita dell'adottato che, specialmente quando ha passato la prima infanzia, si porta dietro un bagaglio che continua ad essere presente nulla nuova casa e nella nuova famiglia, checché ne pensino i genitori e quanti tendono a semplificare la vicenda adottiva. Sistemare questo bagaglio deve essere un compito comune e implica una trasformazione dell'intero nucleo familiare che deve venire a patti e ristrutturarsi sulla base di nuove realtà: fisiche, etniche, culturali, psicologiche. I genitori, anche se spinti da un senso di vero altruismo, possono spesso ignorare questo aspetto e minimizzarne la portata: ma costruire insieme qualcosa di nuovo rappresenta uno degli aspetti più attraenti e soddisfacenti del viaggio dell'adozione.