"Prometeo" rivista trimestrale di scienza e storia
sett. 2004, anno 2, n. 87

 

Anna Oliverio Ferraris

Resilienza individuale e collettiva

 

Fino a venti anni fa coloro che sopravvivevano a un attacco cardiaco pensavano di dover fare una lunga convalescenza, di dover evitare qualsiasi stress anche minimo, di essere costretti ad abbandonare l'attività lavorativa e condurre un'esistenza riparata tra le mura domestiche. Oggi, invece, con una supervisione medica appropriata, molti infartuati riescono a tornare in circolazione nel giro di breve tempo, a riprendere le proprie attività con la sensazione, spesso, di essere più sani di prima. Ciò è possibile perché oggi i medici non lasciano loro il tempo di adagiarsi nella condizione di malato, li spingono ad assumere una attitudine attiva, a fare esercizi fisici e ad adottare una dieta alimentare sana, adatta alla loro costituzione fisica. Intorno a sé, l'infartuato trova persone che hanno fiducia nella sua ripresa, danno per scontato che possa riprendere una vita normale e così alla fine il paziente può riemergere dalla crisi fortificato e con la sensazione corroborante di essere riuscito a vincere una grossa sfida.

A seguito del rischio che hanno corso, gli infartuati imparano alcune norme di comportamento, igieniche e alimentari importanti per evitare una ricaduta. Imparano a fare più movimento, a prestare maggiore attenzione al loro fisico. Imparano anche a conoscersi, a prestare attenzione a certi aspetti del loro carattere che li portano a reagire impulsivamente, che sono controproducenti sia per le reazioni che suscitano negli altri, sia perché, mettendo in circolazione troppa adrenalina, hanno effetti negativi sulla loro salute. Imparano quindi a prevenire le situazioni rischiose per la loro salute e in questo modo danno avvio ad un percorso personale di maggiore consapevolezza, di maggiore controllo di sé e della propria vita. Imparano cioè ad utilizzare una forza psichica che hanno dentro di sé, ma a cui non avevano mai prestato molta attenzione sino a quel momento. Questa forza ha un nome: alcuni, come Epitteto e Marco Aurelio, la definirono forza d'animo, altri resilienza, termine, quest'ultimo, mutuato dalla scienza dei materiali, che sta interessando sempre più tutti coloro che operano nel campo della salute fisica e mentale.

Per molto tempo gli studiosi della psiche hanno posto l'accento sulle ferite che i colpi della vita possono lasciare nell'animo umano e così oggi esiste un'amplissima letteratura sugli effetti dei traumi (lutti, perdite, separazioni, maltrattamenti, abusi, aggressioni, stress dissestanti) e una letteratura invece più ridotta sui fattori che consentono alle persone di resistere ai colpi della vita, di recuperare, di crescere e svilupparsi normalmente malgrado si trovino a vivere in condizioni di obiettiva difficoltà. In altre parole: per molto tempo è stata prestata grande attenzione al perché le cose vanno male, un'attenzione piuttosto scarsa al perché vanno bene e un'attenzione ancora inferiore al perché vanno bene quando "dovrebbero" andare male. Se è stata prestata assai più attenzione al primo tipo di fattori un motivo c'è: la psicologia clinica, la psicoanalisi e la psichiatria si sono concentrate sui risvolti negativi dei traumi e degli stress perché quelli erano considerati, dagli operatori della salute mentale, gli aspetti primari e più urgenti.

Ma con lo svilupparsi della psicologia preventiva e della salute si è cercato anche di capire perché molti individui riescono a far fronte autonomamente a condizioni di forte svantaggio, ossia quali sono le forze interne e esterne, legate all'istinto di sopravvivenza, che consentono alle persone di fronteggiare rischi e difficoltà, anche notevoli, riacquistando nel giro di breve tempo l'equilibrio perduto o comunque mantenendo inalterata la propria capacità di reagire, di sentire, di dare un senso alla vita e portare avanti un progetto. Perché ovviamente è diverso sopravvivere indurendosi o diventando insensibili e reagire invece mantenendo intatte le propria sensibilità e umanità. Molti sopravvivono ma con costi notevoli per il loro equilibrio mentale e la vita di relazione: possono diventare aggressivi, violenti, insensibili al dolore altrui; se aggrediti e maltrattati possono identificarsi con l'aggressore e assumere la sua filosofia di vita; oppure, reprimere i sentimenti, isolarsi, chiudersi in se stessi, diventare incapaci di amare, di compatire, di comprendere, di trovare un senso nelle cose che fanno.

Si sta perciò riscoprendo e rivalutando la resilienza, ossia la capacità di proteggere la propria integrità sotto l'azione di forti pressioni; quella forza interiore che consente alle persone di reagire ai colpi della vita, di risollevarsi e di ricostruirsi. <<Tutto ciò che non mi fa morire mi rende più forte>> scrisse Friedrich Nietzsche, affermazione che può innervosire quanti guardano all'opera del filosofo tedesco come alla miccia di una cultura improntata all'esaltazione dell'individualismo e del totalitarismo. Non si può però non riconoscere che questa affermazione di Nietzsche ha la forza tagliente e intrinseca degli assiomi, ossia di quelle verità che non hanno bisogno di essere dimostrate perché si appellano a esperienze profonde e indiscutibili, soggettive e al tempo stesso universali.

La resilienza è per la psiche ciò che il sistema immunitario è per il corpo, però, siccome psiche e corpo lavorano insieme e non c'è una psiche separata dal corpo, i due sistemi possono potenziarsi oppure deprimersi a vicenda. Per tornare al caso degli infartuati, se il paziente considera che la sua vita è ormai spezzata, che per lui c'è soltanto un futuro "da malato", si deprime e questo ha effetti negativi non soltanto sulla sua ripresa psicologica ma anche su quella fisica. Nelle persone stressate e qualche volta nei depressi c'è una produzione di cortisolo superiore al normale e cronica, il che ha effetti negativi anche sull'organismo. L'eccesso di cortisolo, l'ormone prodotto dalla cortecia dei sureni, porta a un aumento di peso e di grasso, può indurre il diabete per l'aumento di zuccheri nel sangue, ipertensione arteriosa per ritenzione di acqua e sali, perdita di proteine e distruzione del collagene (un tessuto di sostegno del nostro corpo), osteoporosi, incremento delle infezioni polmonari o di altro tipo a seguito delle diminuite capacità di difesa dell'organismo.

Come il sistema immunitario reagisce mettendo in moto delle difese che consentono una ripresa e che immunizzano da ulteriori attacchi di virus e batteri, allo steso modo i colpi della vita possono essere fronteggiati e rafforzare la psiche. Il colpo provocato da un'esperienza dissestante può essere superato se si fa appello alle proprie energie interiori, se si trova chi ci sostiene in un momento critico, se non si rimane troppo a lungo in una condizione di precarietà e di crisi, se si riesce a dare significato agli accadimenti. <<Trovare un senso, un significato rende molte cose sopportabili, forse tutte quante diventano sopportabili>> ha scritto Carl Gustav Jung riflettendo sul potere delle nostre risorse cognitivo-emotive. I fattori alla radice della resilienza non sono sempre gli stessi in persone e situazioni diverse: serve avere vissuto un buon attaccamento nella prima infanzia; serve poter contare su persone amiche e fidate; serve essere flessibili, adattabili, curiosi; serve saper guardare gli accadimenti in prospettiva; serve assumersi delle responsabilità ma non le colpe altrui; serve avere senso dell'umorismo, immaginazione, interessi; serve saper comunicare; serve avere una fede, un progetto di vita; serve anche aiutare gli altri; ma soprattutto serve prendere l'iniziativa, non restare passivi, non adagiarsi nel ruolo di vittima. Questa reazione attiva è il fattore che distingue la resilienza dalla semplice resistenza.

Un caso emblematico fu quello dei due ostaggi occidentali, Edward Tracy e John McCarthy, che nell'agosto del 1991 riemersero da cinque anni di dura prigionia in Libano. Durante quel periodo i due prigionieri avevano sofferto la fame e la sete, erano stati picchiati, minacciati molte volte di morte, tenuti per lunghi periodi in catene e bendati. Ma mentre al momento della liberazione uno era visibilmente provato e disorientato, aveva dei vuoti di memoria e delle percezioni confuse, tanto che fu poi ricoverato nel reparto psichiatrico dell'ospedale in cui era in osservazione; l'altro non diede alcun segno di disagio, mostrò di non aver perso il senso dell'umorismo e riprese immediatamente i ritmi della vita precedente alla segregazione. Rispetto al primo, il secondo aveva avuto per tutta la durata della prigionia una attitudine proattiva, aveva cioè cercato di vedere gli eventi in prospettiva, di tenere dei contatti con gli altri detenuti diventando per loro un punto di riferimento, di non perdere mai la fiducia nel fatto che i propri amici e familiari si sarebbero dati da fare per tirarlo fuori da quel buco nero in cui era sprofondato ed era anche riuscito a non lasciarsi spersonalizzare, a mantenere intatto il senso della propria identità.

Coloro che, di fronte alle difficoltà e ai colpi della vita assumono una attitudine proattiva hanno maggiori opportunità di risollevarsi e ricostruirsi. L'ambiente è una realtà che va presa in considerazione per quella che è, non illudendosi che tutto possa svolgersi secondo i propri desideri. L'approccio non è utopico ma realistico. Proprio perché non pensano di dover vivere nel migliore dei mondi possibili, coloro che assumono una attitudine proattiva sono anche pronti a cogliere i segni dei cambiamenti e ad anticiparli in modo da non trovarsi spiazzati. Questa capacità consente loro di sviluppare una propria zona di autonomia interiore piuttosto ampia e quindi di estendere la propria zona d'influenza sull'ambiente. Ci si colloca al comando della cabina di pilotaggio, si tiene conto delle capacità dell'apparecchio, del bollettino metereologico, della propria esperienza di pilota, degli obiettivi e anche della capacità, qualche volta, di modificare il piano di volo.

L'opposto della attitudine proattiva è quella retroattiva. Quando una persona manifesta una attitudine retroattiva, vive essenzialmente il suo ambiente come un luogo ostile, che non gli consente di agire, di realizzare i suoi ideali, le sue scelte, di essere se stessa. Vive uno stato di frustrazione e di sofferenza che potrebbe essere riassunto in espressioni del tipo: "Ah! se mia moglie non se ne fosse andata!"; "Ah! se avessimo potuto prevedere!". L' "Ah! se…" dà l'idea di non poter scegliere né decidere alcunché. "Sono obbligato a…", "Non ho altra scelta…". Non tutto dipende da noi, ovviamente, ma chi vive ogni difficoltà in questo modo ha l'impressione che il mondo si sia coalizzato contro di lui, che l'ambiente e gli altri non gli consentano di progredire, di affermarsi e che anzi facciano di tutto per annientarlo. In queste condizioni gli spazi di autonomia si restringono ulteriormente e la persona diventa sempre più dipendente dall'ambiente su cui non riesce ad esercitare più alcuna forma di influenza. Il soggetto ha spesso una visione astratta del mondo, il che non gli consente di fare delle previsioni realistiche delle difficoltà che potrà incontrare.

Un altro punto di resistenza è, abbiamo detto, quello di non pensare a se stessi come a delle vittime, di rifiutare le etichette che a volte gli altri vogliono attribuirci: di emarginato, di malato, di irrecuperabile. Un esempio istruttivo nella sua drammaticità è quello dei bambini delle favelas che in America Latina vivono in strada, in gruppi separati dal mondo degli adulti e basati sul mutuo soccorso. Sono bambini senza famiglia, o usciti da nuclei degradati e disgregati, esclusi dalla società ed esposti quotidianamente e molti rischi, che però riescono a sopravvivere, a solidarizzare, a non disprezzare la propria condizione e, per quanto sorprendente possa sembrare, a mantenere un'immagine positiva di sé e degli amici con cui condividono la sorte. E' quanto emerge da questo brano tratto da Robert Coles (1989), che nei suoi studi ha cercato di scoprire il segreto della sorprendente resistenza dei meninos de rua. Il brano che segue è tratto da un colloquio tra Coles e un ragazzo che riflette sulla condizione di quelli come lui e dei ricchi che abitano nei quartieri residenziali.

Non abbiamo molto qui, e quando guardo la gente di Copacabana (la città ricca) so che noi non abbiamo nulla e loro tutto. Ma anche con nulla si può ridere, e si può avere degli amici. Guardo tutta questa gente di Copacabana ed è come se fossero pronti a pugnalare al cuore chi osa mettersi sul loro cammino anche solo per un istante, e non sorridono mai, neppure alle persone che conoscono. Io mi domando se il Signore (la statua del Cristo di Rio che sovrasta la collina) non sorrida, voglio dire alla misera gente di Copacabana e di Ipanema, che sebbene siano pieni zeppi di soldi ciononostante hanno l'aria di chi è stato duramente colpito da Dio e così hanno paura di sorridere, e non saranno mai capaci di rispondere con un sorriso….

In questa intervista si potrebbe vedere soltanto un tentativo auto consolatorio di un ragazzo sfortunato. In realtà, parlando della mancanza di umanità e di allegria dei ricchi di Copacabana, il ragazzo rivela soprattutto il bisogno di non essere considerato inferiore, sfortunato o vittima del destino. Se lui è povero dal punto di vista materiale, gli altri lo sono dal punto di vista morale: una considerazione che rimette al centro l'ago della bilancia, restituisce fiducia e consente di non perdere la stima di sé. Un giovane ha di fronte a sé un futuro, o quanto meno ha la sensazione di averlo, anche se vive in condizioni misere. Questa sensazione soggettiva e interiore nasce dallo spirito di sopravvivenza e porta a rifuggire l'idea di poter essere confinato nel gruppo degli emarginati, o considerati tali. Essere considerati dei paria, anche se non se ne ha alcuna colpa, viene giustamente percepito come un grosso svantaggio sociale, una limitazione alla propria libertà personale, un sorta di stigma che rende vittime due volte: la prima volta perché lo si è realmente, la seconda perché si viene considerati tali. Se nel primo caso si può sperare nel cambiamento e lottare per realizzarlo; nel secondo invece, il fatto di essere etichettati dagli altri come sfortunati, paria o vittime, rende il cambiamento più difficoltoso: non bisogna modificare soltanto la propria condizione ma anche i giudizi degli altri.

Che un ragazzo rifiuti una definizione limitativa di sé è del tutto comprensibile, anche se può apparire irrazionale, perché il suo rifiuto è funzionale a quelle forze che può mettere in campo per resistere alle avversità, per non lasciarsi sconfiggere dalle congiunture negative. Se accetta di essere etichettato come vittima, magari nella speranza di essere aiutato, si troverà infatti ad affrontare un ostacolo in più, questa volta collocato all'interno di sé, incorporato come un'ombra nella sua mente e nel suo cuore: lotterà ma senza convinzione; agirà ma senza la speranza interiore di potercela fare; oppure attenderà dagli altri ogni tipo di aiuto e non riterrà di poter far alcunché per aiutarsi. La sua inventiva potrebbe essere bloccata dalla mancanza di slancio vitale e di fiducia in se stesso.

Questo è anche uno dei motivi per cui, a volte, le analisi lucide e razionali dei ricercatori sociali vengono vissute come ostili dai singoli, specialmente se tali analisi li collocano in una posizione di svantaggio sociale. Lo svantaggio c'è, ed è incontestabile (se lo studio è corretto), ma se l'analisi comunica ai diretti interessati un senso di ineluttabilità, questi potranno viverla come una limitazione alla propria libertà personale e saranno portati a considerare quell'analisi come minacciosa e ostile, in quanto le conclusioni a cui giunge nei loro confronti rischiano di inaridire quelle energie vitali che sono alla radice della resilienza stessa. Trovare dei limiti anche in coloro che sono obiettivamente più fortunati può essere, dunque, non soltanto un istintivo meccanismo difensivo, ma una necessità per riuscire a mantenere un livello sufficiente di autostima. Rifiutare le etichette è un'altra necessità psicologica per chi si trova in una condizione di svantaggio, accettarle infatti significherebbe eliminare ogni margine di manovra alle proprie azioni, all'intervento del caso, della fortuna e di tutta quella gamma di eventi che appartengono alla sfera dell'imprevedibile.

Sappiamo tutti che molti degli eventi della nostra vita non dipendono da noi, eppure in parecchie situazioni, anche estreme, abbiamo lo spazio sufficiente per assumere un ruolo attivo. Pensiamo alla condizione di due pazienti cui è stata diagnosticata la stessa malattia terminale. Per comodità esemplificativa, supponiamo che la diagnosi sia avvenuta per entrambi nello stesso giorno. Entrambi i pazienti hanno gli stessi sintomi, la stessa prognosi, la stessa attesa di vita. Uno crolla emotivamente, considera che la sua vita sia arrivata al capolinea e aspetta di morire. L'altro decide invece di vivere il tempo che gli rimane nel modo più pieno e significativo possibile. In altre parole, il secondo paziente decide di assumersi la responsabilità di ciò che gli resta della propria vita e di viverla a suo modo.

Quando lo spazio di manovra è limitatissimo c'è chi si difende con l'immaginazione. Nel descrivere la propria esperienza nel campo di sterminio nazista di Buchenwald, lo psichiatra Viktor Frankl, allievo di Freud, descrive una delle sue svariate strategie per astrarsi e confortarsi, ossia il ricorso alla fantasia:

Obbligai i miei pensieri a cambiare argomento. Improvvisamente mi vidi sulla pedana di una calda, illuminata e gradevole sala per conferenze. Di fronte a me sedeva un pubblico attento. Io stavo tenendo una lezione di psicologia sul campo di concentramento! Tutto quello che mi opprimeva in quel momento divenne obiettivo, visto e descritto dall'ottica distaccata della scienza. Con questo metodo riuscii a controllare la situazione, a ergermi sopra le sofferenze del momento e a guardare ad esse come si appartenessero già al passato. Io e i miei problemi diventammo oggetto di un interessante studio psico-scientifico intrapreso da me stesso (Frankl, 1962).

Ciò che può apparire un meccanismo di difesa patologico in situazioni normali (ossia chiudersi in un proprio mondo fantastico e tagliare i ponti con la realtà) può diventare un meccanismo di difesa normale quando ad essere patologico è l'ambiente. E' importante tener presente questo aspetto, soprattutto quando si ha a che fare con persone che hanno subito gravi lutti o sono molto malate o sono parenti di malati terminali: gli schemi di riferimento che possono funzionare in situazioni normali improvvisamente appaiono inadeguati.

Non esiste soltanto una resilienza individuale ma c'è anche una resilienza delle comunità. Nel corso di calamità e disastri come un terremoto, un'alluvione, un bombardamento, sono assai più numerosi di quanto generalmente si immagini i sopravissuti locali che riescono a mantenere la calma e ad organizzarsi per prestare aiuto a chi si trova in grave difficoltà. E' quanto è accaduto per esempio a Chernobyl nel 1986, durante il bombardamento di Amburgo nel 1943 (in cui morirono 30.000-45.000 persone e 900.000 rimasero senza tetto) ad Hiroshima e in moltissime altre catastrofi; tanto che oggi si consiglia di rivedere le strategie dei gruppi di soccorso e di utilizzare molto di più di quanto non avvenisse in passato le forze locali. La tendenza a considerare "vittime" tutti i membri di una comunità colpita dalla tragedia, non consente di dare spazio a coloro che invece, conoscendo il territorio, le persone e le risorse locali, sanno muoversi molto meglio di chi viene da fuori. E naturalmente questa capacità di reagire e di non lasciarsi abbattere, di riconoscersi nella comunità e di entrare subito in azione, la ritroviamo anche in situazioni di minore drammaticità. Mettersi al servizio della comunità, riorganizzarsi in vista della ricostruzione è anche una strategia per evitare di ripiegarsi su di sé, prestare eccessiva attenzione alle proprie disgrazie e stati emotivi. Se in generale è positivo approfondire la conoscenza di sé e prestare attenzione alle proprie emozioni, questa attitudine può invece rappresentare un ostacolo quando bisogna mantenersi lucidi e muoversi più rapidamente possibile in vista di un obiettivo.

Gli effetti controproducenti del ripiegamento su di sé o dell'eccessivo distacco in un momento sbagliato sono illustrati, attraverso una metafora, in una fiaba molto antica dal titolo Unocchio, Dueocchi, Treocchi che parla di tre sorelle. In questo racconto la cui origine si perde nella notte dei tempi, soltanto Dueocchi ha una visione realistica e obiettiva della vita. Unocchio vede soltanto un lato della medaglia, ha punti di vista rigidi e unilaterali che la inducono a nutrire passioni oscure e smisurate, proprio come il Ciclope descritto da Omero nell'Odissea, che aveva un solo occhio al centro della fronte. La mancanza di prospettiva porta Unocchio ad avere una visione paranoica dell'esistenza e a nutrire dei pensieri intensamente malevoli nei confronti di tutti coloro che si oppongono ai loro desideri o appetiti. Treocchi, l'altra sorella, ha, al contrario, una attitudine ipervigilante, eccessivamente preoccupata. Quando si hanno tre occhi un occhio non dorme mai. Treocchi simboleggia la preoccupazione costante di sé. Il timore di poter essere attaccati e inattivati. Il porsi sempre al centro della situazione. La persona che (per motivi diversi) non ha sviluppato un Io sufficientemente forte, maschera la propria debolezza ostentando opinioni categoriche ed esercitando una vigilanza puntigliosa su di sé. Lo scopo di questo comportamento è quello di proteggersi da eventuali giudizi altrui così come da ogni possibile rischio. Le persone troppo preoccupate di sé, si comportano in modo da auto sabotare le proprie iniziative, anche se esse avrebbero, concretamente, i mezzi e le capacità per portarle a termine con successo o senza grossi danni. Altri invece sono capaci di mantenere un orientamento sul compito quando la situazione lo richiede, perché raggiungere un particolare obiettivo o soluzione è alla cima dei loro pensieri.

La resilienza o forza d'animo è un tratto della personalità complesso in cui convergono diversi fattori o attitudini: temperamentali, familiari, sociali, culturali, educativi, spirituali. E' legato all'istinto di sopravvivenza ma si sviluppa nel corso della vita assumendo modalità diverse a seconda delle circostanze, dei singoli individui, dei modelli di riferimento e degli apprendimenti. Nella resilienza è possibile individuare tre dimensioni:

una dimensione biologica, che sottolinea il ruolo del patrimonio genetico: alcuni hanno energie maggiori di altri;

una dimensione psicologica che evidenzia l'importanza delle relazioni che si formano nell'infanzia e che consentono di strutturarsi come persona capace di reagire per far fronte alle avversità (attaccamento, comunicazione, competenze, modelli di riferimento);

una dimensione sociologica che mette in evidenza l'influenza del gruppo, della cultura, degli apprendimenti, delle tradizioni familiari, della spiritualità, dell'etica sulla capacità dell'essere umano di attraversare le crisi dell'esistenza vivendo, malgrado tutto, una vita, non certo semplice, non priva di sofferenza, non sempre equilibrata, ma piena.

Bibliografia

 
Coles R. (1989), in Dugan T.F. E Coles R. (eds.), The child in our Times. Studies in the Development of Resiliency. Guilford Press, N.Y. , pp.44-55
 
Frankl V.E. (1962), Man's search for meaning. Simon & Schuster, N.Y. pp. 73-74
 
Furedi F. (2004), Therapy Culture: Cultivating vulnerability in an uncertain age. Routledge, London
 
Oliverio Ferraris A. (2003), La forza d'animo. Rizzoli, Milano